Conflitto di marchi e caffé: la decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione con sentenza 14 agosto 2019 n. 21403 ha dettato un principio di diritto in materia di conflitto di marchi.

Pubblicato su Settembre 16, 2019, 1:47 pm
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La Corte di Cassazione torna ad occuparsi di conflitto di marchi, concorrenza sleale e segni distintivi, questa volta entrando nel mondo del caffè e dei surrogati del caffè.

La società attrice, una SpA, chiama in giudizio altra società (una Srl) lamentando l’utilizzo “di una denominazione sociale confondibile con la propria, nonché’ l’impiego di marchi interferenti con i suoi segni distintivi e la concorrenza sleale posta in atto dalla stessa ai propri danni”; la srl convenuta propone domanda riconvenzionale a tutela della propria ragione sociale e dei propri marchi, di cui a propria volta lamentava la contraffazione.

Ci troviamo dinanzi, quindi, ad un vero e proprio conflitto di marchi nell’ambito della medesima classe merceologica, attinente alla commercializzazione del caffè e dei surrogati.

Come è sorto il conflitto di marchi

Caffè e surrogati: risolto un conflitto di marchi?

Per comprenderne le ragioni, e quindi anche le motivazioni della pronuncia in esame, bisogna fare un passo indietro nel tempo.

La società convenuta, infatti, ha inserito nella propria denominazione sociale e quindi nel marchio, quando già era operativa la società attrice avente analoga denominazione, il cognome di uno dei due soci, “appartenente alla famiglia che era una volta titolare della società di fatto OMISSIS, la quale aveva cessato la propria attività nel 1959”.

Per intenderci il marchio della SpA attrice è il cognome in questione, successivamente utilizzato dalla Srl convenuta accanto al termine “caffè”.

Nei primi due gradi del giudizio, la domanda attorea è stata rigettata, con accoglimento parziale della domanda riconvenzionale.

La Corte d’appello di Genova ha ritenuto che “l’uso del nome e della ditta (OMISSIS)” fosse stato posto in essere “legittimamente da parte di entrambi i contendenti: in forza di una ininterrotta trasmissione familiare quanto alla società attrice (sin da quando essa si denominava (OMISSIS) – (OMISSIS)), in forza di una legittima reviviscenza del nome di famiglia (OMISSIS) (legato ai fasti del caffè spezzino) quanto alla società convenuta (cfr. articolo 8, comma 2 c.p.i.).”.

È stata chiamata a decidere sul conflitto di marchi, quindi, la Suprema Corte: chi ha diritto ad utilizzare il proprio marchio senza generare confusione e concorrenza sleale?

La pronuncia della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione con sentenza 14 agosto 2019 n. 21403 ha dettato un principio di diritto in materia di conflitto di marchi.

La Suprema Corte riporta la normativa regolatrice della materia ed in particolare la disciplina della funzione identificativa svolta dalla ragione sociale e dalla denominazione delle società.

Richiama, quindi, l’articolo 2567 c.c., che dichiara applicabili alla società proprio le disposizioni di cui all’art. 2564 c.c., che regolamenta la disciplina in caso di confusione tra le ditte individuali.

Muovendo dalla disamina di questa disciplina, si enuclea l’orientamento della Suprema Corte per cui, il conflitto tra i segni “va risolto avendo riguardo al momento in cui le società di capitali che ne sono titolari sono iscritte nel registro delle imprese (ovvero, per il periodo anteriore all’entrata in vigore della L. n. 580 del 1993, nel registro delle società presso la cancelleria del tribunale”.

Ed infatti, “pur dandosi atto che con riguardo alle ditte si discute, in dottrina, della possibilità di attribuire rilievo all’uso del segno che preceda l’altrui registrazione, è escluso che una tale questione possa porsi per le società di capitali (di cui qui si controverte), visto che queste ultime acquistano la personalità giuridica e vengono quindi ad esistenza, come soggetti di diritto, con l’iscrizione nel registro delle imprese: sicché non è nemmeno concepibile un utilizzo della rispettiva denominazione sociale prima di tale momento”.

reviviscenza del nome di famiglia o Registro delle Imprese? – © Diritti a Tavola

Gli Ermellini pongono, pertanto, in secondo piano la “reviviscenza del nome di famiglia” che invece aveva dato fondamento alla sentenza di appello: “qualora due società di capitali inseriscano, nella propria denominazione, lo stesso cognome, il quale assuma per entrambe efficacia identificante, e si verifichi possibilità di confusione, in relazione all’oggetto ed al luogo delle rispettive attività, l’obbligo di apportare integrazioni o modificazioni idonee a differenziare detta denominazione, posto dall’articolo 2564 c.c. a carico della società che per seconda abbia usato quella uguale o simile, non trova deroga nemmeno nella circostanza che detto inserimento sia legittimo e riguardi il cognome di imprenditore individuale la cui impresa sia stata conferita nella società, poiché anche in tale ipotesi la denominazione della società può essere liberamente formata (Cass. 3 agosto 1987, n. 6678)”.

Tantopiù che il segno distintivo legato al nome di famiglia era già estinto a seguito della cessazione dell’attività dal 1959, per cui è stato escluso comunque possa trattarsi di trasferimento della denominazione della società.

La causa è stata quindi rinviata alla Corte di appello di Genova che, in diversa composizione, dovrà decidere la controversia conformarsi al principio di diritto dettato dalla Corte di Cassazione: “Ove due società di capitali abbiano la medesima denominazione il conflitto tra i segni va risolto attribuendo prevalenza all’iscrizione nel registro delle imprese, o nel registro delle società per il periodo che precede l’entrata in vigore della L. n. 580 del 1993, che è intervenuta per prima, senza che assuma rilievo né il mero pregresso utilizzo della stessa denominazione da parte di altra società, che ha cessato da tempo di operare e che faceva capo a familiari del socio di una della società registrata per seconda, né il fatto che la denominazione di quest’ultima coincida col cognome di uno di tali soci“.

Conflitto di marchi e marchio anteriore nella giurisprudenza europea

Recentemente il mondo del caffè italiano ha visto risolto un ulteriore conflitto di marchi, in questo caso per identità di cognome.

Il cognome, però, si sa, ha un maggior carattere distintivo del segno rispetto al nome (nella fattispecie diverso), per cui è sorta la controversia tra due aziende dedite alla torrefazione e vendita di caffè, in questo caso dinanzi alla EUIPO, l’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale incaricato di gestire i marchi dell’Unione europea e i disegni e modelli comunitari registrati.

Un’udienza del Tribunale UE – fonte www.curia.europa.eu

A seguito di impugnazione della decisione della quinta commissione di ricorso dell’EUIPO del 22 gennaio 2018 (procedimento R 402/2017‑5), si è pronunciato il Tribunale dell’Unione europea, VII sezione con sentenza 6 giugno 2019 causa T‑221/18.

Il Giudice europeo, chiamato a decidere sui ricorsi in materia di marchio comunitario, ha ricordato nella sentenza alcuni passaggi normativi fondamentali in materia di conflitti di marchio:

  • 27      In via preliminare è opportuno ricordare che dal considerando 10 del regolamento n. 207/2009 (divenuto considerando 24 del regolamento 2017/1001) emerge che il legislatore ha ritenuto giustificato tutelare il marchio anteriore soltanto nella misura in cui esso sia effettivamente utilizzato. Conformemente a tale considerando, l’articolo 57, paragrafo 2, del regolamento n. 207/2009 prevede che il titolare di un marchio dell’Unione europea possa esigere la prova che il marchio anteriore è stato seriamente utilizzato nel territorio in cui è protetto, da un lato, nei cinque anni che precedono la data della domanda di dichiarazione di nullità e, dall’altro, nei cinque anni che precedono la data in cui è stata pubblicata la domanda di registrazione del marchio controverso. Ai sensi dell’articolo 156, paragrafo 1, del regolamento n. 207/2009 (divenuto articolo 196, paragrafo 1, del regolamento 2017/1001), la disposizione in parola si applica nell’ambito di un procedimento di dichiarazione di nullità relativo ad una registrazione internazionale che designa l’Unione.
  • 28      Un marchio dell’Unione europea è oggetto di un «uso effettivo», ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 207/2009 (divenuto articolo 18, paragrafo 1, del regolamento 2017/1001), quando è utilizzato conformemente alla sua funzione essenziale e al fine di conservare o di creare quote di mercato nell’Unione europea per i prodotti o i servizi contraddistinti da detto marchio. Si deve verificare se le condizioni risultino rispettate, tenendo conto di tutti i fatti e di tutte le circostanze rilevanti quali, segnatamente, le caratteristiche del mercato di cui trattasi, la natura dei prodotti o dei servizi tutelati dal marchio, l’estensione territoriale e quantitativa dell’uso nonché la sua frequenza e regolarità (v., in tal senso, sentenza del 19 dicembre 2012, C‑149/11, EU:C:2012:816, punto 58).
  • 29      In forza della regola 22, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 2868/95 della Commissione, del 13 dicembre 1995, recante modalità di esecuzione del regolamento n. 40/94 (GU 1995, L 303, pag. 1) [divenuta articolo 10, paragrafo 3, del regolamento delegato (UE) 2018/625 della Commissione, del 5 marzo 2018, che integra il regolamento n. 2017/1001 e abroga il regolamento delegato (UE) 2017/1430 (GU 2018, L 104, pag. 1)], applicabile alle domande di dichiarazione di nullità ai sensi della regola 40, paragrafo 6, di detto regolamento (divenuta articolo 19, paragrafo 2, del regolamento delegato 2018/625), la prova dell’uso deve riguardare il luogo, il tempo, l’estensione e la natura dell’uso che è stato fatto del marchio anteriore.
  • 30      Per esaminare, nel caso di specie, il carattere effettivo dell’uso del marchio anteriore occorre svolgere una valutazione complessiva di tutti i fattori rilevanti del caso in parola. Tale valutazione implica una certa interdipendenza tra i fattori presi in considerazione. Uno scarso volume di prodotti commercializzati con detto marchio può così essere compensato da una notevole intensità o da una grande costanza nel tempo dell’uso di tale marchio e viceversa. Inoltre, il fatturato realizzato nonché il numero di vendite di prodotti con il marchio anteriore non possono essere giudicati in assoluto, ma devono esserlo rispetto ad altri fattori pertinenti, come il volume dell’attività commerciale, le capacità di produzione o di commercializzazione o il grado di diversificazione dell’impresa che sfrutta il marchio nonché le caratteristiche dei prodotti o dei servizi nel mercato di riferimento. Il giudice dell’Unione ha perciò precisato che non era necessario che l’uso del marchio anteriore fosse sempre quantitativamente rilevante per essere qualificato come effettivo [v. sentenza del 17 dicembre 2015, Bice International/UAMI – Bice (bice), T‑624/14, non pubblicata, EU:T:2015:998, punto 39 e giurisprudenza ivi citata; v. del pari, per analogia, sentenza dell’11 marzo 2003, Ansul, C‑40/01, EU:C:2003:145, punto 39].
  • 31      Inoltre, l’uso effettivo di un marchio non può essere dimostrato da probabilità o da presunzioni, ma deve basarsi su elementi concreti ed oggettivi che provino un uso effettivo e sufficiente del marchio sul mercato di riferimento [v. sentenza del 27 settembre 2007, T‑418/03, non pubblicata, EU:T:2007:299, punto 59 e giurisprudenza ivi citata].

Dal che, dopo ampia motivazione anche alla luce dell’istruttoria acquisita e la comparazione dei segni figurativi, il Tribunale ha annullato la gravata impugnazione della Commissione EUIPO, avendo erroneamente valutato sull’uso effettivo del marchio anteriore.

Il presente articolo, ai sensi del Regolamento, ha finalità meramente informativa e divulgativa della sentenza in commento; non può costituire un parere legale, potendo non tener conto del complesso normativo e giurisprudenziale anche in punto di successivi aggiornamenti per gravami o riforme.
Redazione