L’illusione nel piatto nell’antica Roma

Nell'antica Roma il bravo chef sapeva elaborare pietanze creando veri e propri giochi di illusione. Come nasce il pesce finto o la mimosa di uova.

Pubblicato su Febbraio 21, 2020, 11:12 pm
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Quando si parla di antica cucina romana viene subito in mente Apicio,

Iniziamo con una premessa che riguarda la vita dello scrittore a cui è stato attribuito il famoso De Re Coquinaria.

Ma siamo davvero sicuri che sia esistito questo gastronomo, critico e organizzatore di lezioni di cucina di successo, o meglio che sia proprio Marco Gavio Apicio questo mitologico Masterchef in tunica e sandali?

Della sua vita si conosce infatti ben poco, dovrebbe aver vissuto nel periodo di Traiano, siamo nel pieno dello splendore del I° secolo della nostra era, ma altri personaggi vissuti a distanza di circa cento anni, prima e dopo del “nostro” Apicio, avevano la stessa fama per lo sfarzo e la ricerca dei piaceri del lusso nella loro vita.

Il De Re Coquinaria poi in realtà sembrerebbe essere una raccolta più tarda basata su un ricettario e una serie di appunti a lui attribuiti, non necessariamente rivolto solo alle classi più abbienti.

La moda romana dell’illusione nel piatto

Comunque sia, il “nostro” Apicio ha il grande merito di averci lasciato numerose e importanti informazioni: la moda romana per l’illusione nel piatto era uno degli aspetti sui quali si è soffermato.

I Romani che potevano permettersi la spesa amavano essere sorpresi a tavola da pietanze che dovevano essere belle, scenografiche e i cui ingredienti, e quindi il sapore, dovevano essere nascosti, confusi nell’insieme fino al momento dell’assaggio.

Tutto era consentito in questo gioco illusionistico: colori, stampi in cui versare e ricompattare ingredienti finemente tritati e amalgamati, l’uso di spezie per ingannare il palato.

giò Apicio aveva “inventato” la mimosa di uovo

Gli antichi Romani a tavola amavano “indovinare” cosa si nascondesse dietro l’apparenza, scoprire i veri ingredienti abilmente camuffati dall’abile cuoco.

Ed ecco che delle semplici rape prendevano la forma di trofei di caccia, oppure tuorli d’uova sode sbriciolati simulavano rami di mimosa.

Alcuni studiosì hanno definito questa abitudine quale antesignana della “cucina mimetica”.

Se ci pensate bene, in parte questa tradizione rimane viva anche nei giorni nostri, con il famoso “pesce finto” delle tavole natalizie, in realtà un pasticcio prevalentemente di patate che viene allestito e decorato a ricordare un pesce.

Bene, anche i Romani avevano il loro “pesce finto” e lo ricorda proprio Apicio: un pasticcio di fegato di lepre o di agnello con porri veniva composto in formella piscem formabis per dilettare i commensali che così mangiavano carne a forma di pesce.

Di questa goliardica abitudine, però, qualcuno se ne approfittava.

Lo racconta Marziale, consegnando nei suoi scritti a futura memoria l’avarizia di Cecilio ed i suoi menù interamente a base di zucca a forma di succulente portate.

Ma sempre economica zucca era; l’illusione cela anche la furbizia.

Enrico de Zorzi