I DOLCI FRITTI : GUSTARLI AL MEGLIO EVITANDO DANNI

La preparazione dei dolci fritti: accorgimenti e risposte scientifiche per gustarli al meglio: dalla temperatura al tipo di olio fino al pasto in cui mangiarli
Pubblicato su Febbraio 12, 2024, 5:08 pm
14 mins

Quando arriva il Carnevale, e comunque per tutta la fascia temporale che inizia dopo l’Epifania e si conclude con l’ultima settimana di Quaresima nella tradizione cristiana, viene un gran pullulare di specialità dolciarie, di cui mi preme ricordare in particolare i cenci di svariate versioni, frittelle, zeppole, bomboloni, bugie, chiacchiere, castagnole e chi più ne ha più ne metta, tutte accomunate da una grande bontà e soprattutto fondate sulla frittura.

Viene spontanea una domanda: quanto si può abusare di questa tipologia di specialità dolciaria senza avere una ricaduta a livello salutistico?

Infatti, è luogo comune sentire discorsi da parte di medici o nutrizionisti, o comunque addetti del settore, e più recepiti dal pubblico generale – in cui viene demonizzata la frittura, addicendo a questo metodo di cottura ragioni per cui essa ingrassa, fa male al fegato e altera i valori dei grassi nel sangue, colesterolo in particolare. 

Ma le cose stanno così veramente?

Considerando la questione da un’ottica generale, la frittura, se fatta a dovere, è un metodo di cottura che può e deve far parte di una dieta sana; preserva infatti le proprietà nutrizionali dell’alimento, possiede un alto potere saziante, ha un contenuto moderato di calorie (in funzione però di ciò che si va a friggere), migliora e stimola le funzioni depurative del fegato, e in ultima analisi, è molto gratificante sia al palato che a livello psicologico, anche perché il fritto dona un sapore particolare e gradito praticamente a tutti i cibi.  

Per quanto riguarda la questione legata al colesterolo, in realtà non solo la frittura di per sé non ne apporta in maniera significativa se utilizza certi grassi, ma può addirittura contribuire a farlo diminuire, andando a stimolare l’unica via metabolica che possediamo per poterlo smaltire data dalla produzione e secrezione della bile.

La frittura ed i modi di dire

Si sente dire spesso che il fritto è “cibo pesante” o “difficile da digerire” o anche che è “molto calorico”: le motivazioni alla base di queste affermazionispesso vanno ricercate specialmente quando la frittura è fatta in casa, ma non raramente anche in locali preposti, quando essa viene condotta in modo errato.  

Quindi non è il fritto in sé a dover essere “discriminato” ma le soprattutto le sbagliate procedure seguite per ottenere la frittura dell’alimento.

Perciò non si deve per forza rinunciare ai piatti fritti, ma occorre sapere che tipo di grasso dovrebbe essere utilizzato, in che modo viene praticata la frittura e infine, ovviamente, quanto ne mangiamo.

Se vengono adottati i giusti accorgimenti, scopriamo che anche il cibo fritto può avere caratteristiche tutt’altro che negative.

Le caratteristiche per una corretta frittura

Vediamo breve una carrellata delle caratteristiche per effettuare una frittura nel modo più corretto e avere ricadute positive in senso salutistico.

La temperatura

Il primo aspetto è rappresentato dalla temperatura

Fondamentale per una buona frittura è che il grasso non sia assorbito dal cibo e quindi se la temperatura è tra i 160 – 180°Ce il grasso scelto avvolge tutto l’alimento per immersione dal punto di vista chimico si forma subito la reazione di Maillard, che detta in parole semplici fa sì che il cibo esternamente formi una crosticinache impedisce al grasso di penetrarne all’interno, allo stesso tempo mantenendo le caratteristiche nutrizionale dell’alimento.

Se questa tipica crosticina non si crea subito, direttamente sull’alimento oppure sulla pastella o la farina o il pan grattato che lo ricoprono, il grasso viene assorbito creando un fritto dall’aspetto unto e non croccante, anche con un conseguente aumento delle calorie assorbite.  

Voglio sottolineare che se la pastella e gli alimenti da friggere sono freddi, ciò può facilitare la formazione di una crosta croccante in superficie.

Quindi per friggere in modo corretto, l’alimento deve essere ricoperto totalmente dall’olio.                 

In mancanza di una friggitrice, può essere utilizzata una pentola con i bordi alti e non troppo larga, immergendo la preparazione in piccole quantità alla volta, altrimenti assorbirà più olio in quanto la temperatura del grasso di frittura tenderà a diminuire.

Friggitrici, le più desiderate (lik pubbl.)

La tipologia di grasso impiegato

Il secondo aspetto è costituito dal tipo di grasso impiegato. 

Va specificato che esistono ricette della tradizione dolciaria regionale che richiedono l’impiego del  burro o magari dello strutto: di fatto  il burro dà al cibo fritto un sapore unico e lo strutto conferisce un gusto davvero particolare per alcune ricette tipiche, come le chiacchere o le sfrappole, quindi per gli amanti affezionati alla tradizione diventano insostituibili.

Quando invece si affronta la questione dell’olio ottimale la questione cambia: non esiste quello migliore in assoluto poiché ogni tipologia di olio impiegato ha caratteristiche differenti per sapore e resistenza al calore. Ad esempio, una composizione di acidi grassi monoinsaturi maggiore conferisce una maggiore resistenza al calore.

L’olio di oliva, il cui contenuto di acido oleico (monoinsaturo) è superiore a tutti gli altri, e l’olio di semi monoseme, sia esso di arachidi o girasole, possiedono un’alta resistenza alle temperature e perciò  sono quelli più adatti a sopportare lo stress di una frittura.

In particolare l’olio EVO, o extravergine di oliva, detiene una notevole quantità di composti che lo rendono di particolare pregio sia organolettico che salutistico, sostanze che però ad alte temperature vengono quasi totalmente degradate congiuntamente all’aroma tipico dell’olio che viene decisamente attenuato, quindi  il suo utilizzo nelle fritture non è certamente bandito  ma nemmeno consigliato per la perdita delle caratteristiche peculiari di questo prezioso grasso da cucina.

Il punto di fumo e l’acroleina

In ogni caso, la scelta dell’olio va fatta anche in base al punto di fumo.

Il punto di fumo é la temperatura in cui i grassi iniziano a produrre fumo in modo continuo che, oltre ad essere sgradevole per naso e occhi, può formare sostanze tossiche per l’uomo.

Tra queste, l’acroleina, epato-tossica ed irritante per tutte le mucose dell’organismo che, a contatto con le componenti del cibo (esempio gli amidi o gli aminoacidi della quota proteica), dà origine all’acrilammide, sostanza di cui è stato provato il potere cancerogeno per protratte esposizioni.

Ogni tipo di olio ha un suo caratteristico punto di fumo, che può fare la differenza in cottura ed evitare la formazione di acroleina:

  • il punto di fumo dell’olio di oliva è a 245 gradi,
  • quello dell’olio di girasole a 210-245 gradi,
  • quello dell’olio di arachidi a 230 gradi
  • quello dell’olio di mais a 230 gradi.

Quindi, oltre a conoscere il punto di fumo dell’olio utilizzato, è necessario sapere che gli oli ricavati dalla spremitura a freddo possiedono punti di fumo più bassi rispetto agli oli raffinati; inoltre, un olio o un grasso ricco di acidi grassi saturi, come lo strutto, ha un punto di fumo assolutamente più alto rispetto ad un olio caratterizzato da acidi grassi polinsaturi.

Per quanto riguarda la formazione di acroleina, più il punto di fumo di un olio è alto e maggiore resistenza mostrerà alle alte temperature. 

Personalmente trovo un compromesso buono l’impiego dell’olio di semi di arachide, anche perché influenza molto poco il gusto della frittura, al contrario di altri tipi di grassi. In ogni caso per essere certi di friggere nel modo giusto, lo strumento per eccellenza è il termometro da cucina per essere sicuri della corretta misura della temperatura. 

A frittura ultimata la specialità va riposta su carta paglia o assorbente per qualche minuto in modo da eliminare l’eccesso di olio, prima di consumarlo.

Il contenuto calorico

E adesso veniamo all’aspetto prettamente nutrizionale e salutistico della cosa.

Personalmente sono sempre stato contrario alla concezione di un inquadramento prettamente calorico relativo al cibo o agli alimenti anche perché, come ho sempre sostenuto in varie occasioni anche con il pieno consenso di validi colleghi, non siamo affatto una macchina termodinamica e il nostro organismo è un sistema biologico decisamente complesso in grado di operare una differenziazione in virtù della tipologia di calorie introdotte.

Tuttavia, non posto esimermi dal constatare che tutti i bei dolci tipici del periodo carnevalesco o di Quaresima, oltre ad essere particolarmente appetibili e gustosi, hanno di fatto un contenuto calorico non indifferente e di un certo tipo, derivato soprattutto dalla presenza di carboidrati a rapido assorbimento e, come visto, anche in lipidi sebbene una corretta frittura ne possa limitare decisamente il contenuto.

E allora come gustare i fritti al meglio?

Come descritto anche in un precedente mio articolo pubblicato su questa rivista in prossimità delle feste natalizie, elaborato assieme alla mia brava allieva Elisabetta Villa, dove venivano menzionati gli aspetti oscuri dei dolci natalizi, l’opzione migliore rimane sempre quella della colazione del mattino, in cui li possiamo gustare accompagnati dalla nostra bevanda preferita, sia essa caffè cappuccino o del buon tè.

In alternativa, possono essere anche gustati fuori dai pasti, come ad esempio nel pomeriggio, ovviamente regolandosi sempre nella quantità, parametro che fa sempre la differenza.

Certamente è anche vero che tali specialità del periodo vengono una volta l’anno e quindi è più che giustificabile assaporarli e gustarseli quando viene l’occasione, ma deve esserci anche la saggezza imposta dal momento della giornata, in special modo non come sovraccarico ad un pasto, peggio ancora se serale, sempre in relazione alle considerazioni che assieme ad Elisabetta abbiamo fatto nell’articolo precedente appena menzionato, cui rimando per approfondimenti.

È anche vero che diverse di queste specialità dolciarie possono essere fatte rinunciando alla frittura ma utilizzando la cottura in forno, che limita in maniera decisa l’apporto della quota lipidica; ho avuto occasione di gustare cenci o chiacchere prodotte con questo metodo di cottura e devo dire che sono risultate ugualmente gustose e appetibili, oltre che decisamente più leggere.

Detto questo mi auguro che queste mie considerazioni possano essere di aiuto a tutti i nostri lettori per potersi gustare al meglio queste e tante altre specialità della nostra della nostra grande tradizione nazionale basate sulla frittura, evitando quei potenziali rischi nei casi in cui questo metodo di cottura venga praticato in maniera scorretta o comunque non adeguata.Buon Appetito…

LA CELLULA ADIPOSA E LA RISPOSTA INSULINICA: IL LATO OSCURO DEI DOLCI NATALIZI

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Mauro Miceli

Mauro Miceli consegue la laurea presso la Facoltà di Farmacia con indirizzo in Chimica Farmaceutica; successivamente entra alla Facoltà di Medicina come interno presso l’Istituto di Farmacologia e Tossicologia dell’Università di Firenze dove consegue la Specializzazione post-laurea in Farmacologia. Prosegue quindi gli studi per il conseguimento della laurea in Scienze Biologiche e successivamente consegue la seconda Specializzazione in Biochimica Clinica presso l’Università di Pisa con una tesi sperimentale pubblicata su rivista internazionale. Successivamente consegue un Master in Fitoterapia. È coautore di oltre pubblicazioni scientifiche indicizzate su PubMed con un valido impact factor, diverse pubblicazioni su testi medico-scientifici, oltre a numerose comunicazioni a vari congressi scientifici. Dal 2002 a tutt’oggi è stato Docente Aggregato in Scienze di Laboratorio Biomediche presso il Polo Biomedico dell’Università di Firenze e Docente a c. presso l’Università Niccolò Cusano e LUMSA Università di Roma nell’area didattica di Biochimica Applicata e Nutrizione Funzionale. Provenendo da una formazione di base incentrata sulla ricerca e impiego di sostanze in farmacologia umana, col tempo ha trasformato questa sua indole nella ricerca e studio di sostanze presenti negli alimenti e nelle piante, la cosiddetta disciplina Nutraceutica, e si è specializzato nel settore biochimico-nutrizionale ispirandosi fedelmente al principio ippocratico (modificato): Fai che il Cibo sia la tua Medicina e non che le medicine siano il tuo cibo...

Mauro Miceli consegue la laurea presso la Facoltà di Farmacia con indirizzo in Chimica Farmaceutica; successivamente entra alla Facoltà di Medicina come interno presso l’Istituto di Farmacologia e Tossicologia dell’Università di Firenze dove consegue la Specializzazione post-laurea in Farmacologia. Prosegue quindi gli studi per il conseguimento della laurea in Scienze Biologiche e successivamente consegue la seconda Specializzazione in Biochimica Clinica presso l’Università di Pisa con una tesi sperimentale pubblicata su rivista internazionale. Successivamente consegue un Master in Fitoterapia. È coautore di oltre pubblicazioni scientifiche indicizzate su PubMed con un valido impact factor, diverse pubblicazioni su testi medico-scientifici, oltre a numerose comunicazioni a vari congressi scientifici. Dal 2002 a tutt’oggi è stato Docente Aggregato in Scienze di Laboratorio Biomediche presso il Polo Biomedico dell’Università di Firenze e Docente a c. presso l’Università Niccolò Cusano e LUMSA Università di Roma nell’area didattica di Biochimica Applicata e Nutrizione Funzionale. Provenendo da una formazione di base incentrata sulla ricerca e impiego di sostanze in farmacologia umana, col tempo ha trasformato questa sua indole nella ricerca e studio di sostanze presenti negli alimenti e nelle piante, la cosiddetta disciplina Nutraceutica, e si è specializzato nel settore biochimico-nutrizionale ispirandosi fedelmente al principio ippocratico (modificato): Fai che il Cibo sia la tua Medicina e non che le medicine siano il tuo cibo...