Il consumo della carne nell’antica Roma

Il menù di carne nell’antica Roma. Problemi di conservazione e di reperimento di un alimento importante ma molto delicato.

Pubblicato su Giugno 04, 2020, 6:54 pm
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I Romani antichi, o per lo meno quelli più antichi, erano noti per essere prevalentemente consumatori di verdure, ortaggi e legumi più che di carne.

Solo a partire dal II secolo a.C. il consumo di carne nell’antica Roma divenne sempre più diffuso, almeno tra i ceti abbienti.

Consumare carne fu uno status-symbol, una necessità di comunicazione così diffusa da rendere necessarie delle leggi per il contenimento della spesa alimentare e del consumo.

Gli esiti di queste norme sono stati decisamente inferiori alle attese, basti pensare a un semplice indicatore: nei primi tempi il consumo di carne era in larga parte autosufficiente.

Il Romano produceva, macellava e consumava carne propria.

Il mercato della carne nell’antica Roma

Successivamente si rese necessario aprire un vero Mercato delle Carni, il Foro Boario sotto la protezione di un dio protettore degli armenti.

Chi vive a Roma oggi, ci passa molto frequentemente, spesso incolonnato nel traffico di fronte alla Chiesa di Santa Maria in Cosmedin.

Sì, amici miei, la zona era quella: un tempo era piena di belati, di grugniti e muggiti, del chiocciare e degli starnazzamenti vari di animali da cortile.

Ora invece la zona é affollata di turisti stranieri, che affascinati dalla leggenda improbabile fanno la fila per fotografarsi mentre infilano la mano in un grosso faccione di pietra appoggiato contro un muro.

Un umile tombino per le acque piovane, molto probabilmente, a cui un film hollywoodiano ha celebrato una seconda vita da star. 

Quali carni mangiavano i Romani?

Per un momento lasciamo stare le pagine delle commedie satiriche che tutti conosciamo sugli eccessi e le follie gastronomiche dei ricchi e dei patrizi.

Il problema della carne nell’antica Roma non era di facile soluzione.

Gli animali, infatti, specie se di grossa dimensione … erano strumenti da lavoro e mezzi di trasporto.

I cavalli erano nobili animali decisamente intoccabili; i buoi troppo utili e preziosi e riservati solo ai riti religiosi più importanti, cui spesso erano destinati gli esemplari troppo anziani o malati; le mucche servivano per il latte e per i vitelli.

E quindi?

Presenza indiscussa sulle tavole degli Antichi Quiriti era Sua Maestà il Maiale, del quale i Romani erano ghiotti e del quale “allora come ora” non si buttava niente.

L’abbacchio: il piatto forte già all’epoca

Per gli ovini andavano – meglio direi vanno ancora – per la maggiore tra i Sette Colli gli agnelli o abbacchi, meglio ancora se ancora allattati.

L’abbacchio al forno era già all’epoca il piatto forte…ovviamente senza patate!

I capretti erano preferiti per la maggior delicatezza delle loro carni rispetto alla capra, o alle pecore, decisamente più…selvatiche.

Gli esemplari maschi che eccedevano il numero necessario alla sostenibilità degli allevamenti dei greggi finivano al mercato.

Il popolo romano, impossibilitato a sostenerne le spese per l’acquisto, era abituato a periodiche elargizioni di carne da parte dell’uomo in cerca di fortune politiche, che finanziava ampie distribuzioni per suscitare il favore della plebe o al termine dei sacrifici pubblici.

Le modalità di cottura della carne

I Romani erano consumatori di cibo di strada, salsicce (le cd. lucanicae, nome arrivato ai nostri tempi) e insaccati venivano arrostiti sulla griglia, venduti e consumati in strada.

La carne era consumata quasi sempre con il sistema della doppia cottura: prima bollita con acqua speziata per ammorbidirne le fibre, poi arrostita.

Solo i meno abbienti si accontentavano dello spiedo, strumento considerato accettabile solo per la selvaggina di taglia.

Di gran lunga più utilizzato era il forno.

Le portate a base di carne

Abbiamo già parlato della caratteristica della cucina romana di mimetizzare, nascondere e trasformare il cibo.

Sorprendere gli ospiti era un must del perfetto padrone di casa.

Le carni e gli arrosti erano spesso farciti, riempiti di altri animali che erano la vera pietanza, oppure trasformati in pasticci, in torte salate o pie diremmo oggi.

Nulla doveva essere ciò che sembrava.

I romani erano, poi, ghiotti di interiora, cervella e “scarti”: tantissime sono le cronache di personaggi del jet set capitolino dell’epoca che si facevano servire piatti di leccornie varie, alcune assolutamente improponibili oggi.

Ma come si conservava la carne nell’antica Roma?

Ecco il vero grande problema: approvvigionamento e conservazione erano molto complicati nel periodo caldo.

Da un lato gli animali erano spostati in montagna verso pascoli più verdi e freschi, dall’altro la temperatura rendeva impossibile per tutti riuscire a garantire la durata del prodotto.

Pochi ricchi e fortunati avevano a disposizione nelle loro ville dei depositi di neve (neve compattata in locali interrati) per stiparvi i generi deteriorabili, spesso avvolti in panni e paglia.

I sistemi di conservazione erano essiccatura al sole, affumicatura e soprattutto conservazione sotto sale.

Per levare il salato si consigliava di bollire nel latte o cuocere con spezie e “fior di farina”, prima di preparare poi la pietanza.

Una curiosità: per la conservazione i Romani usavano anche immergere la carne nel miele o nelle vinacce, per determinare assenza di ossigeno e quindi impossibilità di creazione di muffe.

Ancora oggi ci sono degli ottimi formaggi nella cui lavorazione è prevista la copertura delle croste con acini di uva.

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Enrico de Zorzi