L’INAIL, il Covid-19, la presunzione semplice ed il “rischio zero”.

Il contagio Covid-19 in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa. Nesso causale e presunzione semplice. Il rapporto con la responsabilità del datore e l’azione di regresso.

Pubblicato su Maggio 26, 2020, 11:34 pm
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Con Circolare n. 22 del 20 maggio 2020, l’INAIL è entrato nel merito dell’accertamento dell’infortunio da contagio da SARS-Cov-2, trattando anche di presunzione semplice nei processi valutativi e “rischio zero”.

Già la circolare Inail n. 13 del 3 aprile 2020 aveva chiarito che “la tutela Inail riguarda tutti i lavoratori assicurati con l’Istituto che abbiano contratto il contagio in occasione di lavoro”.

Nel documento sono stati richiamati i principi regolatori dell’accertamento dell’infortunio in caso di malattie infettive e parassitarie, quando è difficile o impossibile stabilire il momento contagiante.

Causa violenta e presunzione semplice

L’Istituto si riferisce anche in questo caso alle Linee guida per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie di cui alla circolare Inail 23 novembre 1995, n.74.

Due i principi fondamentali a cui l’INAIL espressamente rimanda:

-deve essere considerata causa violenta di infortunio sul lavoro anche l’azione di fattori microbici e virali che penetrando nell’organismo umano ne determinano l’alterazione dell’equilibrio anatomico-fisiologico, sempre che tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa;

+la mancata dimostrazione dell’episodio specifico di penetrazione nell’organismo del fattore patogeno non può ritenersi preclusiva della ammissione alla tutela, essendo giustificato ritenere raggiunta la prova dell’avvenuto contagio per motivi professionali quando, anche attraverso presunzioni, si giunga a stabilire che l’evento infettante si è verificato in relazione con l’attività lavorativa.

La presunzione semplice nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro

Ricordiamo a questo proposito che è risalente l’orientamento della Suprema Corte sul tema.

Già con sentenza 12.5.2005 n. 9968 era stato espresso il principio per cui “Con riferimento all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, può costituire causa violenta anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinano l’alterazione dell’equilibrio anatomo-fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Tale dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici”.

Sulla nozione di “causa violenta” il Giudice supremo ha stabilito che “Con riferimento all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, la nozione attuale di causa violenta comprende qualsiasi fattore presente nell’ambiente di lavoro, in maniera esclusiva o in misura significativamente diversa che nell’ambiente esterno, il quale, agendo in maniera concentrata o lenta, provochi (nel primo caso) un infortunio sul lavoro o (nel secondo) una malattia professionale.

La prova del relativo nesso causale deve avere un grado di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’eziopatogenesi professionale, questa può essere ravvisata in presenza di un elevato grado di probabilità, per accertare il quale il giudice deve valutare le conclusioni probabilistiche del consulente, desunte anche da dati epidemiologici” (Cass. Civ. 26.5.2006, n. 12559).

La presunzione semplice non comporta automatismo

La presunzione diventa, pertanto, elemento valido ai fini istruttori, con una precisazione giuridica.

L’INAIL, conformemente agli orientamenti già espressi, ritiene sufficiente per il riconoscimento dell’indennizzo una “presunzione semplice”, per cui l’esistenza del fatto ignoto viene desunta come conseguenza ragionevole, probabile e verosimile del fatto noto, secondo un criterio di normalità.

Non è necessario che si tratti di unica conseguenza possibile del fatto noto.

L’applicazione di tali principi non deve interpretarsi come automatismo ai fini dell’ammissione a tutela dei casi denunciati, tanto più che, in caso di presunzione semplice, è sempre ammessa la prova contraria.

L’INAIL precisa che è necessario “sempre accertare la sussistenza dei fatti noti, cioè di indizi gravi, precisi e concordanti sui quali deve fondarsi la presunzione semplice di origine professionale, ferma restando la possibilità di prova contraria a carico dell’Istituto”.

Contagio in occasione di lavoro?

La presunzione semplice presuppone in ogni caso “l’accertamento rigoroso dei fatti e delle circostanze che facciano fondatamente desumere che il contagio sia avvenuto in occasione di lavoro (le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, le indagini circa i tempi di comparsa delle infezioni, ecc.)”.

Peraltro, proprio in questi giorni la Corte di Cassazione ha affermato un principio di diritto sulla gerarchia tra prove dirette e prove presuntive.

È stato affermato, infatti, che “L’esistenza di una prova diretta del fatto esclude che questo possa considerarsi “ignoto” e, quindi, che possa farsi ricorso alle prove presuntive; per altro verso, il contrasto fra le risultanze di una prova diretta (nella specie, una testimonianza oculare) e le presunzioni semplici priva queste ultime dei caratteri di gravità e precisione.

Pertanto, il giudice che intenda basare la ricostruzione dei fatti su presunzioni semplici deve dapprima illustrare motivatamente, ai sensi dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, le ragioni per cui ritiene inattendibili le prove dirette che depongono in senso contrario, non potendosi limitare ad una generica valutazione di maggiore persuasività delle prime” (Corte Cass. 12.5.2020 n. 8814).

La valutazione dell’INAIL, a seguito di denuncia di infortunio, si fonda sugli elementi

  • acquisiti d’ufficio
  • forniti dal lavoratore
  • prodotti dal datore di lavoro.

Il riconoscimento dell’origine professionale del contagio è, di fatti, l’esito di un giudizio di ragionevole probabilità.

La responsabilità ed il nesso con i comportamenti omissivi datoriali

Il procedimento di valutazione e con esso il riconoscimento dell’originale professionale del contagio da Sars-Cov-2 è “totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio”.

Il che non significa che la condotta datoriale sia indifferente di per sé.

Significa che l’iter motivazionale prescinde dalle omissioni del datore di lavoro agli obblighi di prevenzione e sicurezza dei luoghi di lavoro.

L’infortunio in “occasione di lavoro” è indennizzato dall’INAIL anche se avvenuto per caso fortuito o per colpa esclusiva del lavoratore.

I presupposti per la valutazione di una eventuale responsabilità penale e civile in capo al datore, per violazione degli obblighi di legge sul tema, sono diversi e devono essere “rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative”.

Indennizzo non è prova di responsabilità datoriale

L’indennizzo non è manifestazione diretta e quindi prova della responsabilità datoriale.

Il che non significa che quest’ultima non possa sussistere, ma che il processo valutativo e motivazionale è autonomo.

Oltre alla “rigorosa prova del nesso di causalità”, precisa l’INAIL “occorre anche quella dell’imputabilità quantomeno a titolo di colpa della condotta tenuta dal datore di lavoro”.

L’indennizzo, dunque, non è ragione probatoria – di per sé – per sostenere la responsabilità penale e/o civile del datore di lavoro.

La colpa del datore deve essere provata, quando invece per provare il diritto all’indennizzo è sufficiente una presunzione semplice che leghi il fatto noto (malattia) al fatto ignoto (contagio sul lavoro).

Obbligo di “rischio zero”?

L’Istituto menziona una recente pronuncia della Corte di Cassazione (Corte Cass. 11.2.2020 n. 3282) per cui “l’articolo 2087 cod. civ. non configura, infatti, un’ipotesi di responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore”.

Del resto, la giurisprudenza è conforme nel ritenere che “non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto” (ex plurimis Corte Cass. 15.6.2016, n. 12347).

La disposizione codicistica, secondo la decisione della Suprema Corte, “non impone un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a rischio zero”.

L’obbligo assoluto non può sussistere in ragione della possibilità di pericoli non eliminabili (connessi ad una lavorazione o ad un’attrezzatura).

Allo stesso modo, non si può ragionevolmente pretendere l’adozione di strumenti atti a fronteggiare qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo per l’integrità psico-fisica del lavoratore.

Diversamente, si creerebbe un automatismo per cui al danno corrisponderebbe sic et simpliciter un’inadeguatezza delle misure di protezione adottate.

Perché sussista responsabilità del datore di lavoro, è necessario, riporta l’INAIL, che “la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto”.

La violazione della legge o degli obblighi da parte del datore di lavoro

La responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile, dunque, soltanto in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche.

Il datore di lavoro, nella contingenza attuale, deve rispettare quanto previsto nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali, rivolti alla prevenzione e al contrasto dell’epidemia Coovid-19, di cui all’articolo 1, comma 14 del decreto legge16 maggio 2020, n.33.

Il rispetto delle misure di contenimento esclude la tutela INAIL?

La risposta dell’Istituto é negativa.

In caso di contagio da Sars-Cov-2 sul luogo di lavoro, il rispetto delle misure di contenimento da parte del datore di lavoro, sufficiente ad escludere una responsabilità, non esclude la possibilità di una tutela infortunistica.

Il lavoratore può avere diritto ad un indennizzo ai sensi della normativa vigente.

Ciò proprio in ragione dell’impossibilità di “pretendere negli ambienti di lavoro il rischio zero”.

L’azione di regresso

La Circolare INAIL 22/2020 fornisce anche alcune precisazioni in punto di azione di regresso dell’Istituto nei confronti del datore, per la quale non è più prevista la pregiudizialità penale.

Il presupposto è, dunque, la configurabilità del reato perseguibile d’ufficio a carico del datore di lavoro o di altra persona del cui operato egli sia tenuto a rispondere a norma del codice civile.

Non è sufficiente per agire in regresso, pertanto, il riconoscimento dell’indennizzo in favore del lavoratore contagiato, tenuto conto che tale riconoscimento, come detto, può fondarsi soltanto su un giudizio di ragionevole probabilità sul nesso causale.

L’indipendenza del processo valutativo giustifica il mancato automatismo anche dell’azione di regresso.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n.30328 del 10 luglio 2002, ricordata dall’INAIL, hanno affermato che “nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica”.

Tale rapporto è invece “configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo…”.

In assenza di una comprovata violazione, da parte del datore di lavoro, pertanto, delle misure di contenimento del rischio di contagio di cui ai protocolli o alle linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n.33, l’Istituto ritiene “molto arduo ipotizzare e dimostrare la colpa del datore di lavoro”.

FASE 2 E SICUREZZA DEI LAVORATORI: TRATTAMENTO DEI DATI, SANIFICAZIONI E DPI.

RISTORANTI E STABILIMENTI BALNEARI IN FASE 2. RACCOMANDAZIONI INAIL


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